Carissimi lettori, torno a scrivere un articolo per The Shield Of Wrestling dopo non so quanto tempo e lo faccio per uno scopo preciso. Discutere, analizzare e soprattutto capire cos’è stato lo Shield.
Già, si può tranquillamente usare il passato perché domenica notte si è consumato l’ultimo ballo della stable formata da Seth Rollins, Dean Ambrose e Roman Reigns.
Il fatto è che tale evento pare essere passato in sordina, nonostante il tipico marketing selvaggio made in Stamford. Ora che l’avventura dello Shield è definitivamente terminata, mi pare doveroso tracciare un bilancio generale; un bilancio che possa aiutarci a comprendere l’impatto dei tre nel wrestling-mainstream.
Per questioni di comodità e praticità, ho pensato di suddividere il loro percorso in tre parti.
Altrimenti non poteva essere, in fin dei conti.
CALL UPS ANTE LITTERAM
L’esordio dello Shield nel roster principale è stato uno dei momenti più significativi degli ultimi dieci anni di WWE.
Rollins, Ambrose e Reigns debuttano
in quel di Survivor Series 2014 (una vita fa’, sportivamente parlando) schiantando Ryback (prima che diventasse tuttologo di professione), sul tavolo dei commentatori.
Il trio viene scritto come un complesso di mercenari al soldo di CM Punk, pronto ad aggredire chiunque pur di scalare posizioni fra RAW e SmackDown.
Seth era già campione NXT, mentre “double R” bazzicava sporadicamente lo show della Full Sail University. Dean invece vantava un nome caldo fra le indipendenti, anche se non era nuovo al settore di sviluppo della World Wrestling Entertainment.
Lo Shield risulta imbattibile nei match a squadre ed ovviamente, con i risultati arriva pure la popolarità.
D’altronde il look riesce a far breccia nel prodotto televisivo e nel cuore dello spettatore casual, mentre i cosiddetti “fan smart” restano colpiti dal loro modo di lottare, un tipo di wrestling che va incontro alla tendenza indy che andava diffondendosi.
LA DIVISIONE PRIMA, IL MAIN EVENT POI
Il secondo periodo targato Shield si apre con il magistrale tradimento di Rollins.
Un piano machiavellico, quello ordito da Triple H per sgretolare la fazione che aveva battuto perfino la sua Evolution.
The Architect effettua un turn in un clima di reale incredulità, prende a sediate i suoi fratelli e scrive una pagina importante dello show del lunedì notte.
Questo momento (diventato un virale nel web, sotto forma di meme) scandisce non solo lo split della formazione, ma soprattutto l’inizio della carriera in singolo dei tre wrestler.
Carriere che sfociano inevitabilmente nella zona altissima della card, una vera e propria colonizzazione del Main Event che dura tutt’ ora.
Numeri alla mano si conta un palmares impressionante: sette titoli massimi, una dozzina di cinture secondarie, un paio di Royal Rumble e due Money In The Bank, giusto per non farsi mancare niente.
Le rivalità incrociate non si sprecano, dopo anni l’attesissimo triple threat avviene in un caldo Battleground d’estate e la vittoria la porta a casa Dean da Cincinnati. Ironia della sorte, il vincitore dello scontro è colui che meno ha ottenuto in termini di cinture e che ha deciso, in seguito, di lasciare la federazione.
SI SA, LE MINESTRE RISCALDATE NON FUNZIONANO
Una metafora che spesso viene utilizzata nel mondo del Pallone, calza a pennello per descrivere il terzo ed ultimo capitolo dello Shield.
L’infortunio alla spalla patito dall’ex CZW e la leucemia che ha colpito il Big Dog, hanno fatto abortire ben due reunion della stable. Ciò ha contribuito ad alimentare il disinteresse per la questione. L’affetto del pubblico, smorzato come una demi volè alla Stefan Edberg, si è affievolito appena annusato l’odore acre del fanservice fatto male.
Non è bastato infatti il miracoloso rientro di The Guy per sopperire a tale mancanza; l’ultimo ballo dello Shield non è stato in grado di coinvolgere i più.
CONCLUSIONE
Delineato il punto della situazione non resta che tirare le somme.
The Shield è stato un fenomeno che ha caratterizzato ed indirizzato la WWE contemporanea ma che allo stesso tempo non ha saputo rinnovarsi.
Sicuramente, non c’è stato alcun “happy ending” ma questo non può e non deve sminuire il valore di una delle compagini più iconiche, più fighe e più rappresentative dell’intera decade.