Quando si parla dei migliori, quando si parla dei vincenti, quando si parla dei numeri uno, è difficile non pensare a Triple H perché lui rappresenta tutto questo
25 meravigliosi anni di carriera in WWE, tra successi, dolori, gioie e dispiaceri. Una carriera brillante con clamorosi sviluppi anche sul futuro della stessa compagnia.
Nel ring
Un viaggio incredibile che sicuramente non iniziò nel migliore dei modi, quando esordì con la gimmick di Hunter Hearst Helmsley, un nobile aristocratico, snob e saccente.
Il suo peso politico dietro le quinte si fece sentire sin da subito però, in quanto Hunter era un membro della Kliq, una stable che riusciva ad avere un enorme potere decisionale a livello creativo, composta, oltre che da lui, da Shawn Micheals, Kevin Nash, Sean Waltman e Scott Hall. Nel celebre Madison Square Garden Incident, il gruppo (meno Sean Waltman) al termine della serata (l’ultima per Scott Hall e Kevin Nash prima di accasarsi alla rivale WCW) ruppe la kayfabe abbracciandosi al centro del ring. L’episodio costò ad Hunter la vittoria del King of the Ring del 1996, al quale seguì però la vittoria del titolo intercontinentale solo pochi mesi dopo.
Il 1997 fu l’anno della vittoria, solo posticipata, del King of the Ring, ma soprattutto della formazione della D-Generation X, una delle stable più dominanti e iconiche dell’Attitude Era.
La DX rappresenta tutto quello che è stato quel periodo: politicamente scorretti, volgari, bulli e casinisti ma che, insieme ad altri fattori, riuscirono a risollevare le sorti della WWE nella guerra del lunedi sera.
La vertiginosa scalata di Triple H lo portò fin sulla cima della federazione conquistando l’allora WWF championhsip in una puntata di Raw is War dell’agosto del 1999, solo il primo dei 14 titoli mondiali presenti nel palmares del Re dei Re.
Consolidatosi ormai come top main eventer, Hunter subì un gravissimo infortunio che lo tenne fuori gioco per diversi mesi; tornò in una puntata di Raw di gennaio per annunciare la sua partecipazione al Royal Rumble match che, senza sorprese, non mancò di vincere. Un ritorno importante e sicuramente iconico che terminò con la conquista del titolo WWE nella 18a edizione di Wrestlemania.
La brand extension divise in due brand il roster WWE, e dopo un iniziale inserimento a Smackdown, “The Game” tornò a Raw, che divenne per anni la sua casa.
Con Eric Bishoff, da sempre innamorato del Re dei Re, al timone dello show rosso, Triple H fu nominato d’ufficio come primo World Haevyweight Champion, nel periodo in cui Raw era senza campione massimo, vista l’esclusività del campione WWE Brock Lesnar per Smackdown.
Una cintura, la Big Gold, nella sua storia WWE, perfettamente e indissolubilmente legata al “Cerebral Assassin”, con cui coincise un regno del terrore nel triennio 2002-2005 in cui quasi sempre l’uomo da battere fu Triple H, e quasi sempre c’era terra bruciata attorno a lui.
Il 2004 fu l’anno della creazione dell’Evolution, la stable più dominante della Ruthless Aggression Era; gruppo che contava sull’esperienza del passato (Ric Flair), sulla spregiudicatezza del futuro (Randy Orton e Batista) e sulla forza di un presente mai così vivo (Triple H stesso). Il gruppo dominò Raw nel corso dei mesi seguenti ma finì dopo tempo a sgretolarsi sotto l’ossessione di The Game per il SUO titolo. Prima Orton e poi Batista, in modi differenti, si videro estromessi dalla stable, ma usciti dal porto sicuro dell’Evolution riuscirono a mostrare negli anni quanto le parole spese da Triple H su di loro fossero vere.
Il 2006 fu l’anno della reunion della DX, con l’amico-rivale Shawn Michaels che generò un Triple H face molto divertente; periodo spensierato che si concluse con un altro brutto infortunio per Hunter.
Il suo ritorno coincise con il Re dei Re di nuovo in competizione singola, alla caccia di un nuovo titolo massimo. Vittoria che non tardò ad arrivare poichè strappò a Randy Orton il titolo WWE, conquistando il suo 11o titolo massimo, seppur per pochi minuti, perdendolo poi nella stessa notte contro l’ex campione.
I successi continuarono e Triple H tornò in cima alla montagna nel 2008, ripetendosi poi nel 2009, dove conquistò in due distinte occasioni il WWE championship e aggiornando a 13 il suo score di titoli mondiali.
La fallimentare terza reunion della DX con Shawn Michaels, priva della libertà creativa al contrario limitata dal TV-PG, segnò un graduale allontanamento di The Game da un ruolo full time di wrestler.
La prosecuzione e chiusura del ciclo dell’End of an Era, nei due irreali e inspiegabili incontri con The Undertaker a Wrestlemania 27 e 28, ci consegnò poi una nuova figura di Triple H, quella del dirigente in giacca e cravatta, che di lì a poco divenne un ruolo chiave nelle storie di Raw.
Triple H così nel 2013, scegliendo Orton come campione aziendale ai danni del B+ player Daniel Bryan, si rivelò essere, on screen, un dirigente spietato, aziendalista e calcolatore, con, a sua detta, la missione di assicurare il miglior prodotto per il business, missione svolta con l’aiuto dell’amata moglie Stephanie McMahon, a capo del gruppo noto come The Authority.
E da lì, in questo suo ruolo da villain tutto da odiare, Hunter ebbe il merito di aver contribuito al successo di atleti come Daniel Bryan, Roman Reigns e Seth Rollins su tutti, che opposti a lui rivestirono il ruolo di eroi contro il sistema e contro il potere.
Da segnalare in questo periodo, a fini statistici, la vittoria del 30-men Royal Rumble Match del 2016 che coincise anche con la conquista del suo 14o e ultimo titolo mondiale.
I match del Re dei Re sono ormai sempre più rari e funzionali spesso nel tentativo di arricchire card con la luce del suo nome, in eventi sponsorizzati dai milioni arabi oppure nelle grandi vetrine dei Big Four. La carriera da lottatore di Triple H è in pausa da quasi un anno ormai e sembra, dopo un quarto di secolo, prossima ad una fine più che meritata.
Fuori dal ring
Ma la grandezza di Triple H sta anche nel suo lavoro fuori dal quadrato.
NXT rappresenta la sua creatura più lucente, un’idea, quella di Hunter, di creare un’oasi di grande wrestling in una federazione ormai sempre più improntata allo spettacolo. La ricerca di Triple H dei migliori talenti del settore indipendente e non, ha permesso l’arrivo in WWE di atleti di tutto il mondo, amati e glorificati ovunque, che hanno la possibilità di misurarsi con la compagnia di wrestling numero uno al mondo per globalizzazione e importanza mediatica.
Atleti forgiati e preparati da NXT per fare il grande salto, tant’è che molte delle attuali top star del presente sono passate dal roster giallo.
Il lavoro di Triple H è riuscito ad andare oltre: NXT è ormai una realtà consolidata che ha fruttato anche un accordo milionario con l’emittente televisiva USA Network, e il gemello NXT UK si propone come una realtà in crescita, oltre ad essere un trampolino di lancio ulteriore per gli atleti europei.
Un’assoluta top star anche come dirigente.
Cos’ha rappresentato Triple H per noi fan?
Arriviamo così alla domanda finale su cosa sia stato, in questi lunghi e intensi 25 anni, Triple H.
Un heel sinonimo del successo e un face simbolo della maleducazione spensierata sicuramente. Ma Triple H è stato di più, è stato tutto quello che il wrestling è e che non dovrebbe mai smettere di essere:
Lo abbiamo imitato nei suoi gesti simbolici. Ci ha fatto ridere di gusto con Shawn Michaels nei suoi scherzi a Mr McMahon. Ci ha fatto arrabbiare quando ha tradito Randy Orton, estromettendolo dall’Evolution. Lo abbiamo odiato quando ha colpito Daniel Bryan con il suo Pedigree. Abbiamo amato i suoi violentissimi incontri migliori e odiato i suoi interminabili incontri peggiori.
Ma Triple H c’è sempre stato, nel bene o nel male, dimostrandosi un assoluto fenomeno di questa disciplina.
E ora che siamo al tramonto di questa storia d’amore manca solo un’ultima reazione emotiva, quella finale, il pianto.
Lacrime che abbiamo già versato per altri prima di lui, ma che non mancheremo di versare quando il Re dei Re dirà definitivamente basta, quando arriveremo, purtroppo, al “Game Over”.